IL CATENACCIO
Negli ultimi anni, quando si nomina il catenaccio, lo si fa sottovoce, quasi per evitare di essere
associati a una tattica considerata obsoleta e agli antipodi di un calcio moderno fatto di
possesso palla, uscita dal basso e alzamento del baricentro. Poi vai a studiare bene alcune
squadre di livello internazionale e ti accorgi che alcuni allenatori “moderni” si rifanno proprio
a quei principi che hanno portato il catenaccio a trionfare in Europa e nel mondo, magari
rivisitati e attualizzati, ma comunque un sistema di gioco basato su difesa attendista e
contropiede. Tenendo sempre a mente che non esiste solo un tipo di calcio, ma diverse
interpretazioni di esso, e lungi dallo schierarsi a favore di uno o dell’altro, con questa analisi si
vuole ripercorrere la genesi del catenaccio e come è arrivato ai giorni nostri. Nell’immaginario
collettivo il catenaccio è una tattica di ispirazione italiana, ma non è propriamente così.
La nascita dell’idea del catenaccio, o per meglio dire in lingua francofona verrou (serratura),
avviene negli anni Trenta in Svizzera. È difficile pensare che una nazione così piccola e con
scarsissima tradizione calcistica possa essere la culla di una tattica calcistica, ma sono state
proprio queste caratteristiche a far nascere quest’idea a Karl Rappan. Nato a Vienna, cresce e
gioca con uno stile danubiano nel Rapid Vienna e nella nazionale austriaca, ma sarà quando
diventa allenatore che accende la sua lampadina. Accade in Svizzera, quando prende le redini
del Servette, e il suo ragionamento si basa proprio osservando il basso livello tecnico dei
giocatori a sua disposizione, che a sua detta non avrebbero mai e poi mai potuto controbattere
giocatori più forti: così, invece di accettare confronti singoli, pensa di giocare di squadra.
Insomma, dà un’impronta di organizzazione collettiva per affrontare squadre più forti,
cominciando a rinforzare la difesa. All’epoca il sistema di gioco più in voga è il WM, una sorta
di 3-4-3 con un quadrilatero a centrocampo e difesa in linea. Rappan sposta uno dei due
mediani sulla linea dei terzini, arretrando uno di quest’ultimi dietro la linea. Di fatto ha
inventato il verouller, ovvero il libero come lo ribattezzerà anni dopo Gianni Brera, che gli
anglofoni chiameranno sweeper, letteralmente tradotto: spazzatore. Un difensore senza
compiti di marcatura. Dal 1931 Rappan vince sei campionati e otto coppe nazionali, col
Servette prima e il Grasshoppers poi, fino ad arrivare a guidare la nazionale elvetica nei
mondiali di Francia 1938, che condurrà fino ai quarti di finale, uscendo dignitosamente con la
grande Ungheria, e togliendosi la soddisfazione di eliminare la Germania nazista che nel
frattempo aveva assorbito con la forza la nazionale austriaca.
Per rivedere un sistema di gioco simile al verrou di Rappen bisogna andare in Unione
Sovietica negli anni Quaranta, dove a cavallo della seconda guerra mondiale Alexander
Kuzmich Abramov, un ex professore di ginnastica allenatore del Kryla Sovetov, adesso
Samara, riprende i principi svizzeri, ma oltre ad abbassare uno dei mediani e facendo scalare
dietro uno dei terzini, dispone la fase difensiva a zona. La sua squadra, presa dai bassifondi,
riesce a tenere testa a squadre più blasonate, senza però arrivare mai ad alzare trofei, e per
questo la sua tattica chiamata “Volzhskaya Zashchepka” ovvero “Volga Clip”, viene considerata
ancora un espediente per le squadre più deboli. Nella terra dei soviet l’esperimento rimane un
fuoco di paglia, che però verrà riacceso trent’anni dopo, con modalità differenti ma con gli
stessi principi, da Valerij Lobanovs'kyj.
È il 1946 quando il catenaccio entra in Italia. E lo fa dal porto di Salerno. Gipo Viani allena la
Salernitana in serie B, campionato che vincerà. Lo fa applicando quello che sarà chiamato
“Vianema”, ovvero un sistema di gioco in cui uno dei due mediani diventa un vero e proprio
stopper sul centravanti avversario, col centrale della linea difensiva che si abbassa a fare il
libero. A maggior protezione difensiva, Viani abbassa il baricentro della squadra. In Italia
allenatori come Mario Villini della Triestina nel 1941/42 e Ottavio Barbieri dei Vigili del
Fuoco La Spezia nel 1944 avevano già usato il libero, ma Viani ha il merito di applicare questa
idea di gioco con regolarità, espandendola alle squadre di fascia medio bassa che
cominciavano sempre più a farne un uso sistematico.
Ma il primo grande club che utilizza il catenaccio è l’Inter di Alfredo Foni, che
nell’interpretazione ci mette del suo. Infatti Foni sposta il terzino di destra dietro a fare il
libero e abbassa l’ala destra che in tale modulo deve coprire tutta la fascia. In pratica inventa
quella che sarà chiamata appunto “l’ala tornante”, e il primo rappresentante del ruolo è Gino
Armano. L’interpretazione del ruolo di libero con Foni è di un difensore arcigno e senza
fronzoli, uno che una volta recuperata la palla la calcia forte e il più lontano possibile, da qui
l’appellativo di “battitore libero” che aveva in Ivano Blason il suo esempio. Con questa
impostazione di gioco Foni vince due scudetti consecutivi nel 52/53 e 53/54, arrivando ad
allenare la nazionale italiana, purtroppo però con minori fortune, non riuscendo a qualificarsi
per i mondiali del 1958.
Dall’altra parte dell’Italia, un macellaio triestino coglie meglio di tutti questa idea di gioco, e
porta la squadra della sua città al secondo posto della serie A nella stagione 1947/48. Inizia
così l’epopea di Nereo Rocco: el Paròn. Dopo Trieste consolida la sua tattica a Padova, fino a
quando nel 1961 viene chiamato dal Milan, il cui direttore tecnico era proprio Gipo Viani, che
decise di affidarsi a Rocco per la sua idea di gioco perché utilizza il libero. L’idea fu vincente.
Per la prima volta questo sistema di gioco viene portato alla ribalta internazionale e, cosa più
importante, vincendo scudetti, coppe dei campioni e coppa intercontinentale. Il catenaccio è
ufficialmente sdoganato e nessuno si vergogna più di utilizzarlo. Rocco in rossonero ha
ovviamente dalla sua un’alta qualità dei calciatori: il suo catenaccio portava sì grande
attenzione difensiva ma, una volta recuperata palla, invece di buttarla cercava di giocarla
grazie alla classe del suo libero Cesare Maldini, che aveva il compito di farla arrivare tra i piedi
di Gianni Rivera, che a sua volta innescava gli attaccanti. Insomma, un catenaccio sì, ma di
qualità.
Ormai il catenaccio è diventato parte integrante del bagaglio tattico di ciascun allenatore
italiano, ma sarà con un argentino che entrerà definitivamente nella storia. Quando Helenio
Herrera arriva all’Inter nel 1960 lo chiamano già “il Mago”. Ha allenato in Francia, Portogallo e
soprattutto in Spagna. È un giramondo e dovunque abbia vissuto e allenato ha accresciuto il
suo bagaglio culturale che riversa in un’innovativa interpretazione del ruolo dell’allenatore,
dalla preparazione fisica all’impostazione psicologica, passando ovviamente per la tattica.
Quando nel 1960 Moratti lo ingaggia a suon di milioni, Herrera gioca un calcio spregiudicato e
offensivo che però nelle sue prime due stagioni non gli fa vincere niente. È nel 1962 che il
mago intelligentemente si adatta al calcio italiano, ma soprattutto adatta il suo sistema di
gioco ai suoi eccellenti giocatori. Herrera decide di applicare il catenaccio alla sua Inter, e la fa
diventare Grande. Tra il 1962 e il 1966 vince tre scudetti, due coppe dei campioni e due coppe
intercontinentali, entrando nella storia del calcio appunto come la “Grande Inter”. La tattica è
semplice, recuperata la palla bisogna arrivare al tiro in tre passaggi. Così da una linea
difensiva composta, oltre che dal portiere Sarti, dal libero Picchi e due marcatori fissi
sull’uomo – Burgnich e Guarneri – la palla deve arrivare subito tra i piedi del regista Luisito
Suarez che con i suoi lanci lunghi e precisi la deve recapitare tra i piedi degli attaccanti
Mazzola e Peiró o allargarla sulle fasce per lo scattante Jair a destra o sul piede mancino di
Mariolino Corso. Il tutto con il centromediano Bedin davanti alla difesa a coprire le spalle di
Suarez e il terzino fluidificante più forte della storia: Giacinto Facchetti. Furbescamente il
Mago racconta in giro che il catenaccio lo ha inventato lui e che sia stato il primo a giocare col
libero in una gara del 1945 con lo Stade Français, ma sappiamo che la storia dice ben altro.
Sicuramente Herrera ha il merito di aver portato il catenaccio al picco massimo della sua
espressione, sia in fatto di gioco che di vittorie. Da quel momento il catenaccio diventerà un
marchio di fabbrica del calcio italiano, tanto che sarà sinonimo proprio di “calcio all’italiana”, e
verrà utilizzato prevalentemente fino agli anni Ottanta, quando sul panorama del calcio
mondiale arriverà un certo Arrigo Sacchi, che spariglierà le carte tattiche del calcio all’italiana
e le rimescolerà sotto la sua visione di zona, pressing e squadra alta. Ma questa è un’altra
storia.
Emiliano Fabbri “el buitre” di https://portierevolante.com/